domenica 11 gennaio 2009

già 10 anni da quando te ne sei andato Fabrizio


Due invocazioni e un atto d'accusa

Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati
che di gloria toccaste gli apogei
noi che invochiam pietà siamo i drogati.

Dell'inumano varcando il confine
conoscemmo anzitempo la carogna
che ad ogni ambito sogno mette fine:
che la pietà non vi sia di vergogna.

Banchieri, pizzicagnoli, notai,
coi ventri obesi e le mani sudate
coi cuori a forma di salvadanai
noi che invochiam pietà fummo traviate.

Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli:
che la pietà non vi rimanga in tasca.

Giudici eletti, uomini di legge
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo l'umano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola.

Quanti innocenti all'orrenda agonia
votaste decidendone la sorte
e quanto giusta pensate che sia
una sentenza che decreta morte?

Uomini cui pietà non convien sempre
male accettando il destino comune,
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine.

Uomini, poiché all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.

In fondo se ci penso bene, parte della mia vita è legata a Genova. Come territorio per aver svernato parecchi anni a Santa Margherita e aver frequentato scuola a Chiavari. Come cultura per il grande feeling con i cantautori della scuola genovese. Primo fra tutti Gino Paoli e di seguito Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè. Tutti amati e assorbiti grazie a quegli ascolti profondi, interiormente sofferti, circondati io e Giulio, nella sua stanza-impianto stereofonico, da una sequenza infinita di emozioni, a volume altissimo, pazzesco. Impianto che si era costruito da solo, far da sé elettronico-hifi, di grande talento da autodidatta,(solo qualche lezione con la scuola per corrispondenza RadioElettra) che mi lasciava sempre ammirato e sbigottito. La sua amicizia, esclusiva, mi permetteva di godere di un ascolto eccezionale. Di giorno, nelle ore possibili ammesse dal vicinato, immersi nella tensione violenta di musica e versi che ci frastornavano, impossibile parlarci, solo gli sguardi di muta consapevolezza. Sprofondavamo nella nostra personale egoistica tristezza masochistica assaporando le parole di “non andare via” e di “vivere ancora”. Entrambi vittime ignote di un mondo già molto ostile, che ricacciandoci ogni giorno di più nel nostro angolino di sofferenza, a causa del nostro “problema”, ci insegnava ad odiarlo. Il mondo e il genere umano, tutto troppo falso, cattivo,vuoto, ipocrita, povero di qualità, insensibile. In una parola non ci meritavano, noi che eravamo su vette eccelse di sensibilità e di sofferenza autogratificante. Solo Gino Paoli, poi Tenco e infine Fabrizio De Andrè erano degni della nostra attenzione, ed erano i nostri miti e punti di riferimento. Costanti approdi, sicuri e palpitanti nei lunghi momenti in cui la crisi scoppiava improvvisa e impudente, inesorabile nella sua sequenza, a volte contemporanea, ma più spesso innescata per contagio da uno all’altro, fino all’acme della chiusura a riccio nella propria disperazione sorda, a cui faceva seguito il richiamo imperioso a sprofondare nell’ascolto della musica catartica.

Poi ci fu Tenco e quella notte di gennaio 1967 in cui Luigi la fece finita, concretizzando lui nei fatti, la nostra ipotesi che nei momenti più bui ci si affacciava come eroica soluzione. Il suicidio, un tema che ogni tanto affrontavamo con mille disquisizioni, che ci affascinava e nel contempo, senza confessarcelo, ci terrorizzava. Un finale da film nella nostra vita così poco spettacolare, così nell’ombra, segnata dall’indifferenza con cui gli altri, il prossimo, i familiari vivevano tranquillamente al nostro fianco, senza accorgersi di niente. Del resto, era la conclusione autoconfortante, nessuno poteva capire il nostro dramma.

Il mio, quello di essere incapace con le donne, imbranato, tagliato fuori da ogni possibile rapporto, vergine e disperato per non aver neanche mai baciato, atterrito all’idea di non saper come fare, perennemente pronto ad innamorarmi o infatuarmi di qualcuna, impossibile, irraggiungibile, perché quasi sempre già impegnata. Lui, Giulio, con il dramma di avere l’interesse sessuale deviato, di essere attratto dai maschietti, malgrado lui fosse nella sua virile beltà, oggetto di spasimo da parte di ogni ragazza che venisse a tiro. Era dovuto al fatto di aver trascorso molti anni chiuso in una comunità-ospedale, gli anni della pubertà, per un problema di malformazione ossea congenita, che gli aveva procurato, dopo infinite operazioni, un accorciamento lieve, ma percettibile di una gamba, e sul piano emotivo un’attrazione puramente estetica verso giovani efebi vagamente effeminati. La menomazione, pur sopportandola con grande orgoglio, era ulteriore motivo di sofferenza.

Il suicidio di Tenco quindi, e la nostra stupida rabbia, il giorno dopo, la muta solidarietà con quel gesto supremo che altro non era che uno schiaffo in faccia al mondo meschino che non l’aveva accolto come avrebbe dovuto. E nella musica assordante in cui c’isolavamo, ora avevano lungo spazio le parole “mi sono innamorato di te perché non avevo nulla da fare…” Di Luigi amavamo molto anche “ come mi vedono gli altri” e “ragazzo mio” e in ogni sua canzone, anche la più leggera, cercavamo i segni della sua mirabile sensibilità, finchè venne quella perfetta dedica di Fabrizio che è “preghiera in gennaio” Signori benpensanti/spero non vi dispiaccia/se in cielo, in mezzo ai Santi,/Dio, fra le sue braccia,/soffocherà il singhiozzo/di quelle labbra smorte,che all'odio e all'ignoranza/preferirono la morte”. Malgrado l’accenno a Dio, che già futuri atei cominciavamo a non sopportare, questo testo divenne un preciso tassello nel nostro percorso evolutivo fra le note e i versi, che non ci avrebbero mai abbandonato.

Ma l’acme di questo percorso, quando già avevamo incominciato a porci su di un piano più propositivo e meno introverso, cercando motivi e occasioni di uscire dal nostro guscio per scontrarci duramente con la realtà di possibili nuovi rapporti, fu l’ascolto, la prima volta, del disco “tutti morimmo a stento”. Ricordo che Giulio mi chiamò, come era usuale fare, da casa sua, fuori sulla ringhiera, il che voleva dire che era solo e si poteva dare fiato all’impianto. Mi precipitai, ma appena entrato nella stanza dell’oblio, così come la definivo, Giulio mi fece un cenno di silenzio con un dito sulle labbra, tanto che pensai che ci fosse ancora in casa sua madre. Invece lui con la solita calma e precisione fece partire il giradischi, su cui già c’era un longplay, e mentre si lasciava cadere nella sua poltrona preferita, anche perché era l’unica mentre a me toccava un puff scomodissimo a cui preferivo sdraiarmi sul tappeto, la musica cominciò ad invadere l’atmosfera salendo gradatamente con un motivo dolcissimo fino a quando la voce inconfondibile di Fabrizio iniziò a recitare una di quelle sue poesie in rima che ti obbligavano ad un’immediata riflessione. E stava dicendo che aveva licenziato Dio, inizio molto promettente, più che confermato dal dipanarsi del testo bellissimo. Inutile dire che quel disco lo ascoltammo in un profondo silenzio, scambiandoci le solite occhiate di compiacimento e di partecipazione. Ogni pezzo risultava più sorprendente del precedente, la musica e l’arrangiamento sembravano di un altro pianeta, i testi scavavano nell’intimo dei problemi più accesi che in quel tempo si potevano affrontare, una vera bomba!

Alla fine, quando la puntina sul giradischi iniziò a gracchiare perché non riusciva a bloccarsi, piccolo problema che Giulio, con suo gran cruccio, non riusciva a risolvere, restammo per lungo tempo ammutoliti, nel gran silenzio che era piombato intorno a noi, scioccati come pugili suonati da una gragnuola di colpi terrificanti.

Ancora oggi, malgrado De Andrè abbia poi composto pezzi notevoli, tutti fantastici, importanti, significativi, indimenticabili, quando ascolto “tutti morimmo a stento” mi riprende il ricordo di quelle sensazioni indescrivibili della prima volta.



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